ebook di Fulvio Romano

venerdì 17 novembre 2017

" Ed è accettabile che siano un attore ed un’azienda privata a decidere il nome e poi magari le dimissioni dei suoi ministri?"(Geremicca)

LA STAMPA

Cultura

Quel contratto

che di Maio

non deve firmare

È onestamente difficile, per il momento, valutare l’esito dei «colloqui americani» dai quali è reduce Luigi Di Maio.

Del tutto noto, infatti, era l’obiettivo che ha mosso il «capo politico» dei Cinque Stelle (rassicurare l’amministrazione Usa circa il profilo e i programmi del Movimento); meno chiaro - invece - è se il risultato sia stato effettivamente raggiunto, tanto negli incontri con esponenti politici americani quanto nello scambio di idee col cardinale Parolin, segretario di Stato Vaticano.

Il giudizio sulla missione appena conclusa non può, dunque, che restare sospeso: ma va detto che già il fatto di aver messo in cantiere una simile iniziativa, testimonia almeno due cose. La prima: che il movimento di Beppe Grillo comincia a muoversi col piglio di chi crede davvero in una possibile vittoria. La seconda: che al di là delle minimizzazioni di maniera, i Cinque Stelle riconoscono - nei fatti - di avere un problema che, se non è di «legittimazione estera», riguarda certamente la necessità di chiarire oltre frontiera natura e programmi del Movimento. Averne preso atto è senz’altro un buon segnale: non foss’altro che per il bagno di realismo che tale consapevolezza sembra annunciare.

Si tratta, in fondo, di una possibile, piccola svolta. Ed è proprio nella speranza che il cambio di toni e di passo sia reale e duraturo, che ci sembra utile segnalare al «capo politico» del Movimento Cinque Stelle che un problema di rassicurazione - oltre che di profilo e obiettivi - è assai concreto e presente anche qui in Italia. Non intendiamo porre né un problema di programmi (giusto che siano ancora in via di definizione) né di squadra (che sarà giudicabile solo una volta definita). La questione riguarda altro: e cioè la democrazia e le regole interne al Movimento.

Potrebbe sembrare questione secondaria: e per il tandem Grillo-Casaleggio (o forse, ormai, Casaleggio-Grillo...) fin’ora è stato così. Ma arrivati sulla soglia di Palazzo Chigi, il problema è tutt’altro che trascurabile. È affinché il senso della questione sia chiaro, lo riassumiamo in una semplice domanda alla quale l’onorevole Di Maio non farà fatica a rispondere: il «capo politico» del Movimento è pronto ad annunciare agli elettori (i suoi e quelli di altri partiti) che non firmerà mai un regolamento del tipo di quello che fu imposto a Virginia Raggi, candidato-sindaco della Capitale?

«Le proposte di nomina dei collaboratori dovranno essere preventivamente approvate a cura dello staff dei garanti del M5S»; l’eletto «assume l’impegno di dimettersi qualora sia ritenuto inadempiente al presente codice di comportamento, con decisione assunta da Beppe Grillo o Gianroberto Casaleggio»; «La costituzione dello staff della comunicazione delle strutture di diretta collaborazione politica degli eletti sarà definita da Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio in termini di organizzazione e scelta dei membri»; gli eletti «dovranno operare in sintonia con i principi del M5S... e con le indicazioni date dallo staff».

Questo è quel che fu costretta a firmare Virginia Raggi: un codice di comportamento che, oltre a prevedere una multa di 150 mila euro per gli eletti che avessero violato i principi del Movimento, la espropriava di non pochi poteri decisionali. E sia chiaro: non si trattava di regole imposte così per dire, perché dalla scelta dei più stretti collaboratori fino alla nomina di raffiche di nuovi assessori, la longa manus di Grillo e dei Casaleggio si è fatta sentire eccome.

Un tale livello di subordinazione (per altro nei confronti di figure dalla legittimazione democratica assai incerta) era parso già insopportabile nella Capitale d’Italia: è evidente che sarebbe del tutto inaccettabile se applicato al Governo del Paese. Insomma: una volta eletto presidente del Consiglio dal Parlamento, su nomina del Presidente della Repubblica, Luigi Di Maio sarebbe disposto a dimettersi su richiesta di Beppe Grillo e Davide Casaleggio? Sarebbe pronto a far decidere allo «staff» nome e ruolo dei suoi più stretti collaboratori? Ed è accettabile che siano un attore ed un’azienda privata a decidere il nome e poi magari le dimissioni dei suoi ministri?

Ripetiamo, un tale codice (in realtà una somma di diktat) era già difficilmente accettabile riguardo al Comune di Roma: se trasferito a livello del governo nazionale, non solo farebbe a pugni con la nostra Costituzione, ma confermerebbe l’esistenza di seri problemi di democrazia all’interno di un Movimento che pure si candida alla guida del Paese. E dunque: dopo aver tentato di rassicurare l’amministrazione americana, l’onorevole Di Maio è in grado di fare lo stesso con la pubblica opinione italiana? In fondo, non è difficile. Basta dire «io un regolamento così non lo firmerò mai». Anzi: non mi verrà nemmeno proposto...

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Federico Geremicca


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